PER LA GIORNATA DELLA MEMORIA 2019, UN CAPITOLO POCO NOTO, MA FONDAMENTALE ANCHE PER LA RESISTENZA:
LOTTE OPERAIE E DEPORTAZIONI NEL ’43-’44 IN ITALIA (di Andrea Sanna, CGIL)
Nella Memoria di ognuno di noi deve restare sempre vivo il ricordo dei sacrifici di tantissimi operai e operaie italiani che pagarono un prezzo altissimo durante la seconda guerra mondiale, vennero deportati e vissero momenti drammatici e tanti soprusi, molti non tornarono, morti nel lavoro gravoso e in schiavitù’ nei campi di concentramento tedeschi. Vennero deportati durante gli scioperi del ’43 e del ’44 che in Italia furono l’elemento capace di distinguere la Resistenza del Nostro Paese da quella europea, causando un duro colpo al fascismo. Per capire quali fatti furono caratterizzanti nelle rivendicazioni dei lavoratori dell’epoca, analizzeremo i contesti che ci consentiranno di percepire i disagi e le necessità di questi lavoratori che poi si tradussero nelle sollevazioni e scioperi nelle fabbriche. Le condizioni del lavoro in Italia negli anni ’43 e ’44 erano alquanto complesse e assoggettate a forti pressioni da parte della Germania che, impegnata nello sforzo bellico, cercò manodopera per la costruzione di aerei da
caccia e bombardieri, oltre che di grandi manufatti in cemento, veri e propri tunnel, detti bunker, nei quali allocare le fabbriche per salvarle dai continui
bombardamenti. Vi è da dire che in quel periodo con l’accordo tra Mussolini ed Hitler molti lavoratori si trasferirono volontariamente in Germania, poi, siccome non bastarono, furono reclutati con i rastrellamenti e deportati. In quell’epoca in Italia, moltissime le fabbriche metalmeccaniche, distribuite tra il centro Emilia e il nord Italia, Piemonte, Lombardia e Liguria. Grandi strutture nelle quali vennero realizzati macchinari e pezzi di ricambio per la guerra; la Fiat, la Falck, la Borletti, l’Ansaldo, l’Ilva, la Piaggio la Oto Melara e molte altre, industrie imponenti dove vennero occupati migliaia
di lavoratori. Durante il regime fascista le Organizzazioni Sindacali furono commissariate e non riconosciute, i contratti collettivi annullati e gli scioperi banditi; anzi rischiarono la vita gli operai che tentarono di sollevare obiezioni sul lavoro o rivendicare diritti, al tempo inesistenti. Il controllo dei lavoratori venne affidato all’unico sindacato, quello Fascista, con il compito di segnalare i lavoratori in contrapposizione al regime, col fine di reprimere qualsiasi iniziativa di rivendicazione nei luoghi di lavoro. Particolarmente estreme le condizioni economiche: paghe orarie da 4,60 lire per un metalmeccanico, a 1,90 lire per una tessitrice, di contro, il pane comune costava 5,42 lire al kg, la pasta 7,06 lire al kg, il burro 260 lire al kg. e la carne 91,25 lire al Kg, il tutto venduto al mercato nero a causa della crisi dovuta al conflitto bellico. Come si può facilmente immaginare i costi proibitivi della vita, appena
citati, resero difficoltosa la sopravvivenza, infatti gli operai indeboliti per il poco cibo, sopportarono a stento il duro sforzo fisico, soprattutto se occupati nell’industria pesante.
Turni massacranti di 12/14 ore giornaliere costrinsero i lavoratori nelle fabbriche, distanti dalle famiglie ed impossibilitati a far rientro a casa a causa della mancanza di mezzi di collegamento. La fabbrica, dunque, diventò da semplice apparato produttivo un luogo di comunità, epicentro di rinascita dell’attività politica e di contrapposizione ad un regime consociativista oppressivo.
Da quel momento in poi si determinò la ripresa su larga scala, dopo circa vent’anni di paralisi, della conflittualità nelle fabbriche, che portò alla scelta degli scioperi per rivendicare il disagio sociale e povertà della classe operaia, a cui il regime fascista fece pagare i costi della guerra, ma anche una forte ripresa dell’attività politica e sindacale di contrapposizione al regime. Queste circostanze alimentarono, come detto, la ribellione e la resistenza che si manifestò con i primi grandi scioperi di massa dei lavoratori, creando, per la prima volta, una forte debolezza nel regime, che fece di tutto per reprimere
queste masse scioperanti, che, di contro, aumentarono ancor più le contestazioni con un rafforzamento della resistenza. Di fatto, gli scioperi ebbero inizio il 5 marzo del 1943, dieci ore negli stabilimenti Fiat Grandi Motori e alla Mirafiori di Torino, 100 mila operai di cui 50 mila solo in Fiat, che fecero da cassa di risonanza immediata in tutto il
Piemonte e consentirono, dal 24 marzo, la diffusione degli scioperi a Milano. Tutte le grandi aziende metalmeccaniche scioperarono. Il regime cercò di reagire, ma restò quasi paralizzato e incapace, tanto che lo stesso Hitler fu costretto a richiamare l’alleato italiano ad una energica repressione. Per molti quegli scioperi della primavera del 43′ segnarono la fine di Mussolini, che venne destituito a luglio dello stesso anno dal Re.
Da quel momento cambiò la storia dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Si chiuse la vicenda del sindacato fascista che soggiogò le fabbriche e venne sottoscritto il primo accordo interconfederale tra la Confindustria e la Confederazione Generale del Lavoro che ridiede vita alle rappresentanze operaie in tutte le fabbriche. Fu però molto forte la pressione che i Tedeschi e i fascisti esercitarono nelle Fabbriche del Centro – Nord Italia, per aumentare le produzioni di materiale bellico a causa dell’avanzata da sud degli alleati. Questo a fine ’43 provocò un altro grande sciopero all’Ansaldo, duemila operai si fermarono e altri lavoratori liguri, quasi 5000, fecero altrettanto in molte industrie del savonese, scatenando la cruenta repressione tedesca che portò all’arresto, alla fucilazione e alla deportazione nei campi di prigionia tedeschi di tanti operai. Il ’44 si aprì con una popolazione stremata dalla dura e difficile guerra, con i tedeschi che soffocarono i tentativi di sollevamento operaio, lo stesso Hitler pensò allora di deportare 70 mila operai e oppositori al regime per proseguire la produzione di armi nei campi di concentramento, ma lo convinsero che ne sarebbero bastati solo il 20% che, fortunatamente, non
arrivarono mai ad essere deportati, perché necessari nelle fabbriche italiane alle produzioni di materiale bellico.
Gli scioperi che dalla fine del ’43 riguardarono tutte le regioni del centronord Italia, e proseguirono anche nel ’44, ma vennero sedati con fucilazioni e deportazioni; 2000 operai, per lo più delle fabbriche torinesi, furono consegnati dai fascisti ai tedeschi e deportati, a marzo a Varese altri 50, a Milano 150 e a Sesto san Giovanni 225, la maggior parte di essi finiva a MAUTAHUSEN e in
pochi tornarono. Intanto le fabbriche in sciopero una dopo l’altra vennero chiuse e gli operai senza stipendi lasciati a casa così da causare l’indebolimento della forza d’impatto degli scioperi, ma non fermarono le mobilitazioni. I nazisti aumentarono le fucilazioni e i rastrellamenti con destinazione il campo di lavoro REIMAGH, annesso a un grande complesso industriale, dove vennero deportati anche 1488 operai della Piaggio e dell’Ansaldo della
Valpolcevera che avevano partecipato agli scioperi del giugno 1944 di Genova.Gli scioperi del ’44 allargarono la base sociale della resistenza e causarono un duro colpo al fascismo. Certo, il prezzo che pagarono in questi due soli anni gli operai Italiani fu altissimo, molti infatti non tornarono dai campi di sterminio, altri persero la
vita tra le file dei partigiani, altri ancora vennero fucilati durante gli scioperi. In conclusione dopo aver analizzato quei fatti drammatici accaduti tra il’43 ed il ’44 in Italia, possiamo affermare che il grande sacrificio, che quei
lavoratori hanno compiuto scioperando e difendendo anche le loro fabbriche. n conclusione possiamo affermare che il grande sacrificio compiuto dai lavoratori che scioperavano e difendevano le fabbriche dalla distruzione tedesca durante la ritirata, era supportato da tre importanti
parole d’ordine:
Pace: era nell’animo e nella testa degli operai di quel tempo la consapevolezza che ogni conflitto bellico finiva sempre per penalizzare i più deboli, i poveri e i
disperati;
Libertà: loro vedevano e significavano l’astensione collettiva dal lavoro come la riconquista dell’autonomia, della facoltà di opporsi all’oppressione dell’impresa e di un regime;
Centralità del Lavoro: Ogni uomo e donna che lavoravano in quelle fabbriche vedevano nello sciopero l’opportunità di rivendicare i diritti più elementari della persona umana, l’astensione dal lavoro guardava in prospettiva ad una società più giusta e solidale, “fondata sul lavoro”.
Al Giorno della Memoria questi lavoratori hanno lasciato in eredità i pilastri della libertà e del lavoro e, in quanto le loro azioni rappresentano un capitolo fondamentale della Resistenza italiana, hanno contribuendo all’impianto della democrazia in Italia e alla nascita della Nostra Carta Costituzionale. (Fonti: ” La Storia della CGIl” di Fabrizio Loreto)